La difficoltà di fare poesia — Circulus Arepo

Una panoramica Vorrei in questo articolo parlare non tanto del come fare poesia o del perché, – non credo si possa insegnare o prescrivere cose del genere – ma del modus operandi, del principio che dovrebbe spingere qualcuno a comporre in versi. Non entro nei particolari, non voglio esaminare casi, né proporre esempi, non a […]

via La difficoltà di fare poesia — Circulus Arepo

Steve Roggenbuck e l’Internet Poetry

Poetiche della contemporaneità

Come si può fare poesia nell’era informatica, dove Internet e i social network fanno ormai parte integrante nella quotidianità di gran parte della popolazione? È diventato davvero un problema fare poesia con i mezzi di comunicazione di massa più diffusi al mondo? Per avere qualche dato: solo 1,97 miliardi di persone hanno navigato nel World Wide Web nel 2010 e tutti i moderni dispositivi (telefoni, cellulari, smartphone, tablet, I-phone, I-pad, Kindle, ecc.) possono connettersi alla rete, l’aumento dei contenuti e dei servizi offerti dal Web, unito alle modalità di navigazione sempre più usabili e accessibili e al boom di diffusione della nuova tecnologia agli inizi del 2000 hanno permesso un accesso Internet in ogni casa, o quasi. Questa rivoluzione non ha soltanto influenzato e modificato i nostri stili di vita, ma ha avuto una considerevole influenza sociale e culturale in molti settori. Uno di questi possiamo intenderlo come un certo modo di fare poesia, e finora in Italia ha avuto ancora poca eco, come gran parte delle avanguardie fuori dai nostri confini, ma in America fare poesia attraverso Internet è molto più che un’ipotesi.

Vorremmo introdurvi con questo piccolo articoletto al variegato mondo dell’Internet poetry, e delle diverse realtà ormai collaudate e con più di un autore a suo carico. Tra questi ci è sembrato il più interessante e significativo Steve Roggenbuck, poeta, blogger e youtuber, classe ’87, originario del Maine, e autore di qualche raccolta di poesie rigorosamente auto-pubblicate.

I suoi video, i suoi testi e la sua attività in generale trasmette e diffonde in nuce le nuove poetiche che sono nate nelle eclettiche coste oltreoceano. Il contesto culturale più florido dove fioriscono queste correnti letterarie alternative (Alt lit, o Alternative literature) sono le grandi città metropolitane (prime fra tutte New York, dove nei caffè e nei locali più ricercati ̶ uno fra tutti: il Nuyorican Poets Cafe ̶ si riuniscono periodicamente gruppi di lettori, poeti, scrittori e appassionati per leggere, farsi leggere e assistere a serate in cui tutti sono invitati a partecipare e a condividere il loro lavoro). Il linguaggio è quotidiano, spesso preso dalla strada, naturale e spontaneo, che affronta temi dalla più vicina attualità alla denuncia sociale. È in questo clima che dobbiamo immaginare raggrupparsi la comunità di poeti che si è raccolta nei social network (Tumblr, Twitter, Facebook) e intorno ai vari cenacoli che si radunano intorno ai blog di Alt lit (Alt lit Gossip, I am alt lit, Beach sloth, e altri) che diffondono e promuovono gli autori che pubblicano e/o estraggono i loro temi da Internet, dalla cultura che si crea in Internet, e che condividono il comune interesse per il mondo dell’autopubblicazione online e i new media. Editori di sé stessi, creano e gestiscono i loro volumi e le loro raccolte facendosi conoscere dal pubblico: auto-promozione, auto-pubblicazione e visibilità in Internet e nei social sono caratteristiche comuni a tutti gli autori di Alt lit.

Il considerare l’Internet come un mezzo originale di diffusione e di pubblicazione della poesia coinvolge anche l’uso che si fa del linguaggio nelle piazze virtuali. Josh Soilker, giornalista per “Vol.1 Brooklyn”, esaminando i tratti che distinguono queste nuove correnti afferma che si fa e si pubblica Alt lit nei post dei blog, in video, nelle chat, negli stati di Facebook, con i PDF e in libretti piegati artigianalmente, condividendo messaggi, macro di immagini, collage di screenshot e tweet. È proprio quello che troveremo se andassimo a visitare il sito sull’Internet poetry: schermate di computer con frasi fluttuanti, immagini apparentemente privi di collegamento a parole e testi, scritte e disegni in Paint; un contrasto di profondità e vacuità, serietà e gioco, quasi un incontro tra il peggio e il meglio di internet messi insieme.

tumblr_mvev6sP0mF1qh31n7o1_500gif by cumpo (Internet Poetry, October 29 2013)

Se non si avesse mai provato, si consiglia, a tempo perso, di visitare certi siti, certe aree del web, certi video dove ricondurre il tutto a un senso è un’operazione vana, e dove alla lontana riportano a vaghe sensazioni randomatiche che si provano davanti a certi di questi lavori. Certamente il web si è rivelato una miniera inesauribile di qualsiasi materiale (e qualsiasi è da intendersi nel significato più assoluto), dove si può trovare di tutto: di bello e di brutto senza alcuna distinzione, passando dal serio al banale in un clic. È un sentimento da internet quello che traspare dopo un po’ di confidenza; un sentimento digitale, un’emozione che ostenta tutti i suoi pixel e i suoi byte, fiera di appartenere alla rivoluzione cybernetica. Il mezzo diventa lo strumento per trasmettere emozioni nuove per il nuovo millennio, a generazioni nate con i primi personal computer, che li hanno visti crescere insieme a loro ed entrare sempre più nelle loro vite. Sono queste generazioni, con la sfacciataggine tipica di chi sa di vivere nel proprio tempo (e non perdendosi in nostalgiche rievocazioni) che compongono la maggior parte dei circoli Alt lit americani: giovani autori come Joshua Jennifer Espinoza, Tao Lin, Timothy Willis Sanders, Mira Gonzalez, Steve Roggebuck e tanti altri, consapevoli di dover approcciarsi al mondo che gli circonda e che gli accoglie.

La rivoluzione del linguaggio che ha sconvolto il mondo con le sue abbreviazioni e la sua fretta, viene sfruttato adesso per la sua immediatezza, la sua modernità e vicinanza al linguaggio parlato e agli slang (“shortened language”, linguaggio abbreviato), un sermo humilis, tanto popolare quanto democratico. La loro è una commistione di linguaggi del web: il grafico, il testuale, le immagini e i video. In particolare il linguaggio poetico è quello più influenzato dai mezzi. Steve Roggenbuck, in particolare, come tutti gli Alt lit «fa un uso marcato del discorso diretto, espressioni di doloroso desiderio e spalancata sincerità (“wide-eyed sincerity”)» scrive Kenneth Goldsmith sul “ New Yorker”. Nota, inoltre, che l’Alt lit viene solitamente scritta nel vernacolare proprio dell’Internet, con abbreviazioni, punteggiatura invertita, abbondante uso di stili tipografici e di errori grammaticali.

«Language is so cool. I can type out these shapes and you can understand me,»

(Steve Roggenbuck)

Continua poi: «mentre altri movimenti Web-based espongono testi acconciati –tagliando e copiando o dosando un vasto ammontare di dati preesistenti [è il caso, per esempio dell’Internet poetry]– Alt lit tende ad usare un linguaggio semplice, rilenvando l’urgenza e il candore di un aggiornamento di status;

«Yay! Dolphins are beautiful creatures and will always have a wild spirit. I have been very lucky because I have had the awesome experience of swimming with dolphins twice.»

 (Steve Roggenbuck)

Nessun sentimento è troppo ritrito per essere riproposto in poesia.» (“If Walt Whitman vlogged, New Yorker)

Nelle opere di Steve, i am like october when i am dead(2010), “DOWNLOAD HELVETICA FOR FREE.COM” (2011), “CRUNK JUICE” (2012), “IF U DONT LOVE THE MOON YOUR AN ASS HOLE” (2013), “Calculating How Big Of A Tip To Give Is The Easiest Thing Ever, Shout Out To My Family And Friends” (2015) si possono riconoscere per le sovracitate caratteristiche: frasi brevi, dirette, senza maiuscole né punteggiatura, con gli errori più comuni della grammatica e ortografia inglese usati in maniera creativa in frasi che comunicano un contenuto spesso banale, quotidiano, quasi fossero commenti estrapolati da un qualsiasi stato di Facebook o Twitter, ora trasformati in letteratura, in poesia, espansi in quadrati bianchi o neri con il testo in contrasto (nel mitico font Helvetica). Lui stesso ammette che la sua principale fonte di ispirazione iniziale sono stati i poeti americani Walt Whitman e Ralph Waldo Emerson, che gli hanno fornito la vocazione e lo scopo per la sua opera. Temi a lui cari, che predilige entusiasticamente, sono il Carpe diem, e l’apprezzamento del mondo naturale, tanto che definisce la sua come una “poetica del YOLO” (ovvero “You Only Live Once”: tu vivi solo una volta), e intitolando “YOLO pages” una fondamentale raccolta di autori alt lit che ha curato e pubblicato.

Ebbene? Si tratta allora di una degradazione della poesia, o sono forse le persone comuni, adesso ad essere chiamate poeti? Non è, forse, un uno svilimento della poesia come la si intende generalmente, ma un suo scorporarsi, un astrarsi nei nuovi media, insieme alla perdita di autorità dell’autore, che non rivendica più per sé la propria opera, che, in questo ideale di condivisione, di sharing, diventa pubblica, di tutti come di nessuno, anonima come gli stati dei social. Almeno, noi non la vediamo come un suo sminuimento, ma un cambiamento di valore del suo uso al giorno d’oggi, imposto o permesso dalle numerose estetiche. Smitizza il poeta e desestetizza, desacralizza il linguaggio poetico, paragonandolo e affiancandolo al popolare, un “nuovo volgare”: così come i tempi e le tecnologie cambiano, dovrà cambiare anche il modo di fare poesia.

Sappiamo che l’Italia è un paese molto legato alle tradizioni, e che non si separerà facilmente da quell’idea comune di poesia e poeta-artista ancora romantici, se non classicheggianti. Fenomeni simili, però, potremo forse paragonarli a quei collettivi di scrittori creatisi negli anni ’90 e ’00: Luther Blissett nel 1994, e la sua evoluzione, il collettivo Wu Ming (“Senza Nome”) nel 2000. Autori che rinunciando alla fama e alla fortuna editoriale (che criticano e disprezzano) privilegiano il messaggio, lo scopo e il mezzo. Qui da noi correnti simili a quelle americane non ne abbiamo ancora viste, e forse dovremo aspettare ancora prima che anche il gusto italiano si prepari ad accogliere le estrose novità del genere. Sempre ammesso, però, che siano compatibili con un gusto italiano, e non solo un frutto della troppo nuova cultura americana; o magari circola già in mezzo a noi, e non la vediamo.

AP

Le estasi dell’artista

Circulus Arepo

Il poeta

I più ingenui degli scrittori sono i poeti. Costantemente hanno la mente impegnata in altre realtà, con visioni fuggitive, che ostinatamente e assai assiduamente ricercano in questa. Come loro unica fonte di ispirazione poetica hanno il mondo e le interpretazioni che loro cercano di dargli. Accade, perciò, che nei momenti più curiosi e stravaganti, dopo giorni o mesi di ricerca (più o meno estenuante), serendipicamente, arriva ciò per cui un artista vive: l’ispirazione.

Tutto può aiutare a facilitarne e favorirne l’autogerminazione, afiinché quando arrivi lo si possa accogliere come un attimo di dolce, chiara e profonda epifania. Il poeta interrompe tutto quello che stava facendo, con lo sguardo fisso sul vuoto, rincorre le immagini e le visioni, i pensieri e le idee che gli scorrono per la mente, per poterle ammirare nella loro vera ed inimitabile perfezione. La bocca gli cade semiaperta, mentre con l’aspetto di uno spiritato…

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La Finzione nella letteratura in Pirandello e Unamuno

La più grande differenza tra realtà e fantasia è che la fantasia deve essere credibile
Mark Twain

La figura dell’autore in un’opera artistica e letteraria è tanto scontato quanto essenziale: ogni lavoro presuppone un autore materiale (o più di uno) e non esiste altra divisione tra l’arte e l’artista oltre finzione e realtà. Ma l’autore può comparire all’interno della sua stessa opera comprendendosi intenzionalmente nel suo capolavoro: alcuni esempi celebri sono gli autoritratti (di Rembrandt, di Michelangelo, etc.) in opere sacre e profane dai contesti assolutamente occasionali; o anche la firma stilistica (Bach usava come temi per le sue fughe il suo cognome). Qualche scrittore, giocando con gli anagrammi si crea un corrispondente immaginario, o si introduce sotto le spoglie di un personaggio (come non pensare a Dante nel suo viaggio fantastico) come “avatar”. Ma le opere d’arte possono riprodurre la realtà? Riprodurla certamente, copiarla, ma si discosteranno lentamente da questa nello sfasamento temporale che diventerà incolmabile: dal momento della creazione (nella sua precisa e delimitata epoca storica) pian piano se ne separa trasformandosi in altro da essa, conquistando l’autonomia dell’arte, perché se la realtà cambia, l’arte, della quale è una copia fissa e immutabile, continuerà ad essere eternamente la stessa imperitura espressione di un sentimento. Sempre la stessa combinazione cromatica, la stessa combinazione di suoni, gli stessi versi poetici, che (con buona pace dell’interpretazione) porteranno all’umanità un frammento del mondo interiore di chi li pensò. Nel momento in cui l’artista li fissa diventano, quindi, qualcos’altro. Non più realtà: verità (giacché la verità non è che un continuo e perfetto mutare se stessa) o invenzione, una falsità, una finzione. Il fruitore di un’opera artistica è a conoscenza di questo avviso e vi si accosterà consapevole che le persone non sanno volare, che i prati non sono rossi, e che una poltrona non può parlare. La rottura delle comuni leggi della natura e della logica indurrebbero il lettore a dubitare di quell’opera come non veritiera, irrealistica; allora la questione nasce dall’atteggiamento con cui ci si approccia ad analizzare un’opera. Come ci si comporterà quando l’opera e l’arte invade la realtà? È quello che accade con gli effetti di trompe-l’oeil di alcuni madonnari, che letteralmente ingannano i nostri occhi con effetti di realistiche (ma ingannatrici) proiezioni prospettiche. Nella letteratura è racchiuso tutto nella manifestazione dell’onnipotenza creatrice dell’autore. Gli esempi più emblematici sono l’anticommedia “Sei personaggi in cerca d’autore” di L. Pirandello e il romanzo filosofico (o nivola) “Niebla” di M. de Unamuno. Emblematici perché opere uniche, nuove e originali per il panorama culturale europeo dell’anteguerra. Questi esempi svelano l’origine della nascita nella mente dell’autore di personaggi che manifestano ansie e crisi interiori che riecheggiano il clima storico del periodo nel quale sono state composte (del 1907 la nivola¹ e del 1922 la prima rappresentazione dei Sei personaggi). Questi personaggi (parliamo di Pirandello) rifiutati dalle scene, vagano senza posa nella realtà, in cerca della loro soluzione teatrale (che sarebbe l’esibizione scenica). Eppure vivono come effimere ombre la loro precaria situazione di personaggi (si badi bene: personaggi, non attori!) tragici, con le loro passioni, il loro dramma e i loro paradossi. Affrontarli in una rappresentazione teatrale comporta l’uso necessario di attori, vestiti nei panni dei sei personaggi, a recitare una parte che «difficilmente potrà essere com’io sono realmente» (cit. Padre) e che all’interno della finzione teatrale che racchiude questa entrata, magica, inattesa per gli attori che stavano provando “Il giuoco delle parti”, sarà velatamente messa in luce e criticata la pretesa di realismo a cui aspirava il teatro naturalista e verista prima di allora. Il gioco di relazioni interne al teatro aumentano ancora e si complicano quando i personaggi chiamano alla ribalta un ulteriore personaggio, necessario allo svolgersi del dramma, realizzando così, sotto l’accondiscendente (o meravigliato) sguardo del pubblico il mistero della creazione di Madama Pace. Nella finzione teatrale è come se gli attori che stavano provando vivessero l’inspiegabile esperienza della materializzazione davanti ai loro occhi del fantastico, ovvero di quello che prima non esisteva, ma tutto questo non viene vissuto nella stessa maniera dal pubblico in sala, giacché ha accettato pagando il biglietto la finzione (il cosiddetto patto narrativo implicito), ma è allo stesso tempo conscia della situazione e critico verso ogni scena proposta: dalla volontaria sospensione del dubbio, al deus ex machina. Finzione, però, che cessa non appena si riaccendono le luci in sala. Si può allora immaginare il motivo per cui le opere di Pirandello abbiano suscitato tanto scandalo. Viene cercato lo stridore che crea il violento impatto tra finzione e realtà, per esempio, è famoso uno scambio di battute tra il Padre e il Capocomico:

«P: – Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata da caratteri suoi, per cui è sempre «qualcuno». Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non esser «nessuno».
C: – Già! Ma lei lo domanda a me, che sono il Direttore! Il Capocomico! Ha capito?
P: – […] se noi oltre l’illusione, non abbiamo altra realtà, è bene che lei diffidi della realtà sua, di questa che lei oggi respira e tocca in sé, perché – come quella di jeri – è destinata a scoprirlesi illusione domani.»

Non ci sta forse mettendo in guardia l’attore che interpreta il personaggio del ‘Capocomico’, e non sta mettendo ancora più in guardia noi? Dove finisce la realtà e dove comincia il teatro? Dove finisce la farsa e dove inizia la vita? Realtà e fantasia allora si scontrano tragicamente nella scena e tutto il teatro, gli spettatori, e tutto il mondo sono coinvolti nella finzione. A ben ragione quest’opera è un capolavoro della letteratura universale, che apre uno spiraglio al nostro telo quotidiano per farci scoprire più personaggi in maschera di quanto non crediamo. Il mondo, e le sue rappresentazioni, sono messe in dubbio e lo spettatore è costretto a reagire, a ragionare, confrontarsi con se stesso (non per caso Pirandello è stato definito scrittore ‘filosofico’). L’opera d’arte è, sotto certi aspetti, come il vetro di una finestra: l’osservatore vede se stesso e il suo mondo riflesso nel vetro, ma attraverso di questo vede quello che c’è oltre, l’aldilà, un mondo più vasto e complesso. Questo eterno dualismo tra reale e irreale, questa “opposizione irriducibile” per Todorov (La letteratura fantastica, 1977) è la “quintessenza della letteratura”. La discussione del limite tra realtà e fantasia, quindi, è stata forse una delle prime questioni implicitamente affrontate dalla poesia e dalle mitologie. Ma, ancora una volta, i limiti si possono rompere e l’invasione della fantasia nella realtà, o viceversa, è da accettare come in un sogno. L’Arte ha sempre cercato di creare artificialmente quello che ogni notte i sogni ci fanno apparire naturale. Così in “Niebla” di Unamuno assistiamo nella fine del romanzo solo dopo che il suo protagonista, Augusto Pérez, cade vittima di disavventure sentimentali e amorose, alla decisione di consultare il parere di Unamuno stesso sulla sua intenzione di suicidarsi. Quello che ad un lettore superficiale può apparire inizialmente come un giochetto letterario, si trasforma presto in un acceso dibattito filosofico ed esistenziale che trascende qualsiasi particolare autoriferimento. La questione vitale per Augusto, oltre a scoprirsi come puro ente di finzione (il primo caso nella storia della letteratura?) è la sua conseguente negazione della libertà decisionale: tutto quello che ha fatto o deciso ( o che ha creduto di fare e di decidere) gli veniva imposto da un potere superiore e sconosciuto, quasi divino, che coincideva, a volte, con la sua stessa coscienza.

«- ¿Cómo que no estoy vivo? ¿Es que he muerto? – y empezó, sin darse clara cuenta de lo que hacía, a palparse a sí mismo. […] – Pues bien: la verdad es, querido Augusto – le dije con la más dulce de mis voces -, que no puedes matarte porque no estás vivo, nì tampoco muerto, porque no existes…»

Il suo creatore-autore gli appare davanti costringendolo ad aprire gli occhi sulla sua natura di personaggio all’interno di un mondo fittizio e inventato. Certo gli interventi degli autori nella narrativa non erano nuovi, ma sono sempre stati limitati al ruolo marginale di narratore (al più onnisciente ed extradiegetico). In quest’opera originale lo scrittore, dall’alto della sua onnipotenza creatrice si include nei protagonisti, creando, però, una personaggio a sé che (come semplice emanazione dimostrativa) ovviamente non corrisponderà mai con l’autore reale che realmente l’ha pensato e fissato su carta. Qui si palesa, allora, il velo sottile che separa la realtà dalla fantasia, la differenza tra il mondo fisico e il mondo ideale, che è evanescente quanto indistruttibile (il nostro vetro). Ma torniamo ad Augusto, che si riteneva dotato di libero arbitrio, e che invece tutto (compresa la decisione di consultare Unamuno) era predisposto dal principio: la sua morte, infatti, è già scritta al finale del romanzo e l’autore non può, o non vuole, cambiarlo.

«- […] No quiere usted dejarme ser yo, salir de la niebla, vivir, vivir,vivir, verme, oírme, tocarme, sentirme, dolerme, serme. ¿Conque no lo quiere? ¿Conque he de morir ente de ficción? Pues bien, mi señor creador don Miguel, también usted se morirá, también usted, y se volverá a la nada de que salió… ¡Dios dejará de soñarle! ¡Se morirá usted, sí, se morirá, aunque no lo quiera; se morirá usted y se morirán todos los que lean mi historia, todos, todos, sin quedar uno! ¡Entes de ficción como yo; lo mismo que yo! Se morirán todos, todos, todos. Os lo digo yo, Augusto Pérez, ente ficticio como vosotros, nivolesco, lo mismo que vosotros. Porque usted, mi creador, mi don Miguel, no es usted más que otro ente nivolesco, y entes nivolescos sus lectores, lo mismo que yo, que Augusto Pérez, que su víctima…
– ¿Víctima? – exclamé.
– ¡Víctima, sí! ¡Crearme para dejarme morir! ¡Usted también se morirá! El que crea se crea y el que se crea se muere. ¡Morirá usted, don Miguel; morirá usted y morirán todos los que me piensen! ¡A morir, pues!»

Sarà l’ultima ed estrema ribellione di Augusto prima di morire, forse veramente suicida (avverando la profetica morte) o forse ucciso, come stabilito, dal suo creatore. Tragica fatalità degli Enigmi, che è la stessa governata del Destino. Questa è la condizione umana che traspare da tutta l’opera di Unamuno: uomini dispersi, isolati e confusi, che vivono una vita prestabilita da altri e che sono sorvegliati da un Dio che prima o poi smetterà di sognarli.

Fingere in latino significa “formare”, “creare”, ed è dalla suprema creazione artistica che l’artista, qualunque sia la sua arte, esprime il suo talento e la sua fantasia (attinta da fonti extra-fenomeniche, o noumeniche). La finzione, in definitiva, è un atteggiamento critico con il quale l’autore favorisce, attraverso le più diverse tecniche, un approccio alla comprensione dell’opera in maniera cosciente, rigettando ogni romanticismo e non occultando le tecniche narrative che utilizza, ma anzi mostrando le caratteristiche propriamente metaletterarie e metateatrali, al fine non solo di stupire, ma anche di far riflettere il lettore/spettatore su se stesso e sul mondo che lo circonda. Borges scrisse: «Perché ci inquieta il fatto che la mappa sia compresa nella mappa e le mille e una notte nel libro delle Mille e una notte? Perché ci inquieta che don Chisciotte sia lettore del Don Chisciotte, e Amleto, spettatore dell’Amleto? Credo di aver trovato la causa: tali inversioni suggeriscono che se i caratteri di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori, possiamo essere fittizi.» (Da Altre inquisizioni, Magie parziali del “Don Chisciotte”, 1960)

¹ Come intendeva lo stesso autore, la forma del romanzo (novela in spagnolo) si confonde con il contenuto nebbioso e incerto di Niebla (“Nebbia”), diventando di conseguenza non più novela, ma nivola.

AP

I giovani di questo paese

“Impetuose e personali impressioni mi hanno spinto a parlare di questa nostra attualità. La nostra, sì, e di chi altro? Siamo noi giovani: studenti, universitari, auspicabili lavoratori e intraprendenti italiani. Noi, tutti noi che siamo (che componiamo materialmente e che creiamo immaginariamente) la nostra società. Questo inestricabile,Immagine

pericoloso e feroce rapporto che lega tutti quanti per creare un unico grande mostro. Essere mitico, Leviatano formato da infinite anime, contraddizioni e assurdità. Noi stessi siamo inevitabilmente parte di questa belva meschina pronta ad attaccarci, sorprenderci e distruggerci; come può anche capitare il contrario… (siamo noi ad attaccare e annullare – virtualmente e metaforicamente – un altro pezzo della chimera). Lo facciamo, purtroppo, senza neanche rendercene conto direttamente. Questa è una visione della società moderna che richiede una profonda ricosiderazione della nostra condizione e funzione al suo interno, e qui arriviamo al punto: qual è il compito dei giovani nella loro attualità? La risposta dei giovani in tutto il mondo non si è lasciata aspettare a lungo, risvegliando in grandi piazze delle città sentimenti e reazioni di indignazione e risentimento nei confronti del potere politico ed economico che il “progresso” aveva sviluppato e condotto ai vertici delle organizzazioni governative. I giovani pretendono riforme, cambiamenti, novità e le trovano in iniziative fondate da altri giovani. Quello che dobbiamo ricercare, oggi più che mai, è l’enorme capacità e potenzialità che abbiamo ciascuno di noi. Dobbiamo cercare l’originalità e la fantasia in tutto ciò che facciamo o pruduciamo, dobbiamo usare la nostra grande immaginazione per creare cose nuove e belle; siamo noi, solo noi giovani che possiamo farlo, perché non abbiamo nulla da perdere. Certo, possiamo avere grandi ideali, ma venire stroncati perché non si ha i mezzi per perseguirli, come pure avere enormi potenzialità, ma non poterle sfruttare per mancanza di strumenti. Per i giovani è frustrante; ed è qui che nasce quella forma di resistenza al vecchio sistema. Questa è l’occasione per crearne uno migliore: il futuro per noi è tutto, viviamo e progettiamo la nostra vita in funzione di tutto questo. Noi siamo il futuro (direbbe uno slogan) perché vive nella nostra fantasia, ce lo portiamo dentro con la speranza di realizzarlo, siamo noi  con le nostre idee che lo creeremo, come anche le prossime generazioni, e quelle successive. Se c’è un’anima pulsante e reattiva in questa società, sono (o dovrebbero essere!) i giovani che cercano il loro roscatto. Per questo vi dico: approfittate delle opportunità che offre ininterrottamente la scuola, non negatevi niente, e, anzi, cercatevi tutto. Sfruttate ogni esperienza al meglio, perché se non vi insegna, può sempre accrescervi come persone. Imparate e preparatevi a rispondere ai tempi difficili che vi stanno di fronte. Non nascondetevi, non negateli, ma affrontateli a testa alta! Chi ha ben seminato raccoglierà i suoi frutti. Auguro, inoltre, a ciascuno di voi, che possiate essere veramente quello che siete (Nietzsche scrisse “Diventa ciò che sei”), secondo i vostri interessi, capacità, attitudini, passioni e sogni. Sperate sempre e continuamente al miglior futuro; che possiate avverarlo voi stessi! Ad una vita felice! Ad una vita nuova!”

Queste parole (scritte non meno di due anni fa) le ho ripescate nei miei scritti, e con mio stupore e rammarico, le ho trovate ancora adesso di un’attualità sorprendente. Quali tempi sono passati! Che eventi sono trascorsi! Verità allora, come anche oggi…

AP

L’utilità dell’inutile

Delle considerazioni estetiche

Non è una caso che il titolo di questo articoletto sia lo stesso del tanto atteso saggio (uscito in Italia, dopo il risonante successo in Francia) di Nuccio Ordine per la Bompiani. Stavo incredibilmente pensando anch’io a qualcosa del genere, quando il professore mi anticipò decisamente. Quello che seguirà saranno solo brevi sviluppi di idee e scoperte che parallelamente ho incontrato e approfondito nelle mie pur lacunose letture.

                                      Il n’y a rien d’inutile en nature, non pas l’inutilité mesmes.

In natura non c’è niente di inutile, nemmeno l’inutilità stessa.

(Michel de Montaigne, Saggi, 1580-95)

Volendo discutere dell’inutilità, ed in particolare dell’inutilità di oggetti, pensieri e discipline, sorge l’urgenza di capire di quale inutilità si vuole parlare e come mai di inutilità si tratta. Innanzitutto: “[…] ci sono due specie di utilità, e il senso di questo vocabolo è sempre relativo” spiega per noi Téophile Gautier nella sua celebre Préface che divenne il manifesto di una certa arte pensata come per se stessa. Quello che è utile per te può non esserlo per me. È ovvio che tentare di estendere qualità utilitaristiche di un oggetto da una persona singola al generale è quantomeno una forzatura, e di conseguenza, un’imposizione autoritaria proveniente dall’alto risulterebbe una violenza alla libera decisione individuale. Il sofista Trisimaco (V sec. a.C.) ebbe occasione di dire che: “Il giusto non è che l’utile del più forte”, e non sembra che sia molto distante dalla realtà attuale. Questo giudizio utilitaristico¹ (che, quindi, vuole valutare una funzionalità, un’operatività dell’oggetto in questione) è teso all’unico scopo di etichettare ciò che può essere produttivo, e che porta alla fine un guadagno e un profitto, da quello che non lo è. A qui tende l’unico interesse di chi vuole spregiare tutto ciò che è futile, superfluo, lusso e di alcuna utilità materiale². Dove e quando il tempo si misura in denaro le attività che più ne fanno le spese sono le arti, le lettere, le scienze speculative e filosofiche. Eppure anche nel mondo culturale si rischia sempre di lasciar insinuare una mentalità lucrosa che strizza più volentieri l’occhiolino al mercato commerciale che non ai nobili e più elevati ideali di Bellezza e Verità.

Miguel de Unamuno scrisse: “L’uso danneggia e persino distrugge la bellezza. La più nobile funzione di un oggetto è essere contemplato” (Niebla, 1907). L’importanza che dobbiamo conferire alla bellezza di per sé deve trascendere ogni sua utilità per donarci naturalmente e gratuitamene piacere. Il bello è lo splendore del Vero, insegna la scuola platonica, e diventa simbolo del bene morale per Kant. Ogni esperienza che possiamo avere del bello è autosufficiente, perché il gusto del bello non necessita alcuna approvazione, né è imposta da alcun interesse. L’Arte non può essere utilitaria perché il suo valore dipende dalla sua autonomia, dalla sua “finalità senza fini” (Kritik der Urteilskraft, 1790), precisamente dalla sua inutilità. “L’Arte è completamente inutile” (O. Wilde, Preface dal The Picture of Dorian Gray, 1890); “Veramente bello è soltanto ciò che non può servire a nulla” (T. Gautier, Préface dal Mademoiselle de Maupin, 1834); sono solo alcune delle più provocatorie affermazioni che artisti e poeti del secolo dei simbolisti hanno trovato necessario spendere per difendere l’idea di Arte come inutile necessità. Se fosse di una qualche utilità perderebbe immediatamente ogni suo slancio metafisico, perché costretta a trattare di argomenti realistici, insegnare qualcosa a tutti i costi, rimanere incatenata a leggi che non fanno che sopprimere e deformare il suo slancio vitale e la sua creatività. Se l’Arte fosse mera imitazione della realtà, sarebbe del tutto superflua. “Senza la musica la vita sarebbe un errore” (F. W. Nietzsche, Götzen-Dämmerung, 1888). L’Arte, come la letteratura, offre quel qualcosa in più che manca alla natura, che serve ad abbellire, che esagera, che mente, che finge, che cela e trasforma. L’artista fa uso della sua creatività per migliorare il mondo intorno a lui e renderlo più bello e migliore. Gli aggiunge quel tocco, quella magia e quell’eleganza che rende estetico lui e tutta la realtà che lo circonda. L’Arte è un lusso che si deve concedere l’uomo; uno dei rituali più importanti e inutili.

La parola stessa ‘Lusso‘ (dal lat. Luxus) significa ‘esuberanza’, ‘abbondanza’, ‘eccesso’; non meraviglia perciò che G. Bataille in un suo mai terminato saggio distingua due tipi di economie: un’economia capitalistica, dove lo scopo è accumulare e accrescere ricchezze, e un’economia di festa, dove l’eccedente produttivo viene subito sprecato senza alcun aumento del potenziale di produzione. “Nel primo caso, il valore umano è funzione della produttività; nel secondo, si lega agli esiti più belli dell’arte, della poesia, al pieno rigoglio della vita umana” (Il limite dell’utile, 1939-1945). Perché solo dove viene valorizzato il superfluo fioriscono umanità e civiltà, mentre dove vige la logica del mercato so inaridisce l’Arte e l’uomo? Lusso non è sinonimo di dissipazione, Arte non vuol dire spreco, poetare non è perder tempo, sognare non è superfluo e investire sulla cultura non significa buttare soldi. Il fatto che l’uomo, sin dalle sue origini più antiche, pensi e crei non ha ancora convinto molto sull’importanza che ha sulle nostre vite un sapere libero e disinteressato. Non si studia solo per imparare dei saperi, ma per imparare a viverli. Il fine del sapere non è la Verità assoluta, ma il percorso e il viaggio che ci può avvicinare ad essa. L’uomo libero che spinge ogni volta più in là i confini della sua conoscenza è una benedizione per il mondo e un sollievo per l’umanità. Contrariamente a quanto si potrebbe credere: la filosofia non serve a cercare risposte, ma a porre nuove domande. “Non v’è esercizio intellettuale che non sia finalmente inutile” (J. L. Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte, 1939). Il conoscere non pone limiti, perché il sapere è infinito, e arricchisce chiunque vi si accosti in completa e libera gratuità. La conoscenza è l’unica ricchezza che si può donare senza impoverirsi. Di questa fonte spirituale noi non possiamo negare all’uomo il suo nutrimento: un luogo nel quale rinfrancarsi, vivificare e dal quale attingere le proprie energie interiori e nutrirsi perché “non di solo pane vive l’uomo” (Luca 4, 4)…

Quelle discipline e le scienze che si pongono come unico fine la pura conoscenza, o il raggiungimento di un modello ideale estetico, devono spingere la curiosità e l’interesse del singolo a scoprire per il piacere e la gioia di imparare, di crescere e conoscersi sempre meglio. La presunzione di crederci sapienti ci nega al principio ogni speranza di apprendere. Il nostro ‘so di non sapere’ sarà, allora, la più nobile resistenza alla trivialità del mondo. Ogni uomo deve dimostrare un rispetto e un atteggiamento che renda merito alla sua essenza, perché il suo essere e la sua cultura l’hanno innalzato e nobilitato dal suo bruto stato di animalità, pertanto, scoprendo la gioia nella bellezza, con mezzi assai inutili: “Elevandosi al di sopra dei bisogni naturali primitivi, egli si fece umano” (Kakuro Okakura, Lo Zen e la cerimonia del , 1906). Se con una panoramica si osservasse il mondo e l’universo che fluttua e ruota intorno a noi, e tentassimo di capire il perché di tutto questo, difficilmente potremmo fornire giustificazioni sull’utilità di ogni cosa: primo, perché “la natura non fa nulla di inutile” (Aristotele, Politica, IV a.C.), secondo, perché – come continua la citazione dell’epigrafe di Montaigne – “Niente è inutile in natura, nemmeno l’inutilità stessa; niente si è intromesso in questo universo che non abbia posto adatto” (M. de Montaigne, cit.). Alla vita rimane il mistero e il delizioso compito di svelarlo nei modi più vari possibili, sempre consci che “l’arte è ciò che meglio consola del vivere” (T. Gautier, cit.), e che valga ancora la pena ricordarsi che nella vita “il massimamente utile è l’inutile” (D. Diderot).

AP

¹ “Per conoscere ciò che è utile bisogna sapere ciò che è inutile” (Zhuang-zi, IV sec. a.C.)

²  M. Heidegger, in un passo di Essere e tempo (1927) chiama indifferentemente ‘strumenti’ gli oggetti di cui si serve l’uomo nella  sua vita; dal momento in cui non gli servono più, fino a quando non li riprenderà in mano, trascorre un certo lasso di tempo nel quale appunto quegli oggetti gli risultano relativamente inutili.

La letterarietà del tema “migranti”

È purtroppo alla luce dei drammatici eventi che sono accaduti sulle coste siciliane dell’isola di Lampedusa che mi sono sorte alcune riflessioni. Non mi addentro sul fatto, già troppo trucemente indagato da giornali e televisioni. È una tragedia che merita insieme meditazione e reazione, e non mi pare questo il luogo dove discuterne (o sì?…). Memore delle letture dei classici, mi è venuto naturale rapportare questi moderni eroi all’epico omerico per eccellenza. Traversate simili e in condizioni certamente peggiori, erano la consuetudine delle esplorazioni per gli Antichi, come il pericolo era sempre atteso. Le peregrinazioni di Odisseo sono una delle prime e più belle avventure che ci siano state tramandate dal mondo antico, ma il virgiliano Enea, fuggitivo troiano, meglio esemplifica le disgraziate vicende attuali. Con questo Virgilio (70 a.C. – 19 a.C.) intendeva fondare miticamente le radici della gens Iulia, che con il Divus Augustus, si impose nella vita politica del neonato Impero. Un’espatriato famoso scampato appena dall’insidia del Cavallo e dall’incendio di Ilio, che si porta sulle spalle il vecchio padre Anchise e il figlioletto Ascanio, venne assunto per legittimare il potere della famiglia Giulio-Claudia. Un’esule, con la propria famiglia; questo venne scelto come simbolo di nobilitazione ed elevazione aristocratica. Paradossalmente anche lui in esilio dalla sua patria perduta nella guerra, un migrante alla ricerca di una nuova casa, di una nuova terra dove trapiantare le sue radici. Cos’altro potrebbe condurre alle nostre porte (alle “porte d’Europa” si è anche detto) se non il sogno e la speranza di una vita, non dico migliore, ma almeno rispettabile e civile. La nostra civiltà, che amiamo definire occidentale, viene volentieri distorta ed esagerata dai nostri stessi mezzi di comunicazione, che creano aspettative paradisiache di gran lunga molto meno lusinghiere di quanto invece sia la cruda realtà della strada. E quali mezzi hanno i nostri amici per discernere quel che è vero e quel che viene fintamente creato dai media? Sicuramente meno del nostro ancora più assuefatto senso critico. E perciò spinti da questa meravigliosa chimera intraprendono viaggi faticosissimi, dolorosi, perdendo ogni sicurezza in una casa, lavorando come schiavi per sfamarsi e continuare la loro strada, attraversano stati interi, contando solo su se stessi, e lottando contro sfruttatori senza scrupoli pronti ad approfittarsene, stipandoli in relitti galleggianti, non risparmiandogli nemmeno il rischio (ormai familiare) di una morte atroce. La disperazione che li porta a tali pericoli la dice lunga sulle condizioni di guerra e miseria dalle quali fuggono. Rischiano la vita per poter di re di vivere finalmente. Ma a quale prezzo. L’ultimo ostacolo che gli si frappone è un mare di acqua. Apparentemente niente di più lontano dalla vita, in cui credono fermamente e alla quale sono attaccati come ad una mamma. La tappa più ardua del viaggio a cui sono giunti dopo mille peripezie, è quella che li separa dalla salvezza o dalla morte per annegamento. Hanno attraversato il loro inferno, hanno superato ostacoli che minacciavano sempre il raggiungimento della loro meta, conosciuto universi di paura e rovine, e non possono dirsi mai sicuri. Quello che, una volta gettati in acqua gli scafi, li attenderà sarà soltanto un nuovo punto di partenza, da cui ricominciare da capo un nuovo viaggio, una nuova avventura, una nuova vita. Partiti senza speranza di sopravvivere, hanno visto e incontrato faccia a faccia la morte, affrontandola e vincendola, rinascendo alla speranza di felicità. Speranza? Quale speranza si può trovare nei capannoni di immigrati dove ci parcheggiano in attesa di ordini? Felicità? Non vedo persone contente intorno a me a festeggiare l’approdo. Non vedo considerazione nello stato che ci ospita. Non vedo allegria nei volti dei morti sulla spiaggia. L’ultimo viaggio li ha portati, cullati in grembi di legno, a dover patire nuove pene d’inferno. Dov’è la giustizia, dov’è la carità, la cordialità, l’ospitalità? Dove sono finiti quei valori di accoglienza e inclusione che hanno fatto un tempo la grandezza di un impero? Se pretendessimo noi  il rispetto che merita qualsiasi uomo, nei confronti anche dei Nostri antenati migranti (si veda l’ “America” kafkiano), dovremmo far subire loro le stesse sorti? Chi prenderebbe le tue parti se andassi in un paese ostile? A noi spetta il compito, ingrato oppure onorevole, di prendercene cura, di guidarli rettamente e di proteggerli nella loro nuova vita, florida di possibilità. Responsabilità che nessuno più vuole accollarsi per fedeltà al partito e per disinteresse manifesto. Umanità che è urgente risvegliare in noi. Nessun altro libro può insegnarci come vivere e far vivere in comunione di intenti, volti ad un ideale di società aperta, libera e sana. Ricordiamoci chi siamo. Ricordiamoci chi eravamo, e guardiamo a cosa possiamo diventare insieme. Senza arroganza e senza fraintendimenti, invoco la benedizione di tutti quei naviganti, che da tutte le epoche e tutti i paesi potevano dire alla luce delle stelle: mare Nostrum.

AP

Brezza di mare

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“Era novembre, e come quando non so cosa fare, vado in spiaggia. Era deserta, come ci si poteva aspettare, in una giornata autunnale. C’era ancora un vento forte, che veniva dal mare. Era la brezza che ti soffiava in faccia la salsedine, ricca di presagi, che non portano nè al bello, nè al brutto tempo. Accarezzava le dune ricoperte di ammofileti e scuoteva le lontane pinete, creando un sottofondo presente, ma silenzioso. Il colore del cielo era spento, opaco, come il freddo che si faceva sempre più sentire. Del pallore che mi circondava, niente avrebbe potuto ricondurmi ai ricordi colorati e vivaci delle estati lontane. Certo, tutto ora era più naturale. La natura selvaggia di quel posto era messa a nudo dall’assenza della folla brulicante e chiassosa. Non c’è traccia di nostalgia, la spiaggia è anche così: un baraccone chiuso con lunghissime distese di sabbia rugosa. Una pagina bianca o imperscrutabilmente scritta. Dei gabbiani avevano lasciato delle scie di impronte. Anche il mare era più freddo. Nella battigia le onde avevano lasciato i consueti rifiuti, insieme a qualche grumo schiumoso di alghe. Riguardai indietro il percorso delle mie orme, formare una linea che si allontanava ubriaca. Ascoltai il vento e le nuvole, rimboccandomi rabbrividendo il cappotto e godendo di questa povertà. Insieme al sapore dell’aria erano mescolate le aromatiche essenze marine, spruzzate dalle creste che si scioglievano nella sabbia grigia. Le ricamate forme delle nuvole multiformi risaltavano sulla piattezza monocroma e incorniciavano quell’unico paesaggio che si estendeva fino ai limiti dell’orizzonte, perdendosi nei suoi confini.”

AP

Uscire alle due di mattina è stata la miglior scelta che potessi fare!

A notte fonda sembra tutto così surreale, perché non c’è un cane in giro (a parte, vabbe’… leggete) e sono quasi sordo da un orecchio (il sinistro, ndr) e gli unici rumori che sento sono la ventola del condizionatore d’aria su incima nel nostro terrazzo e il leggero soffio del mio orecchio – nemmeno i fulmini bianchi e celesti fanno rumore!

Sono uscito in giardino, ben sapendo che non sarei andato lontano visto il cielo:
Ho visto fulmini luminosissimi a est. Il tempo fa scintille.
Ho appoggiato chiavi e cellulare agli scalini.
Ho camminato qualche metro.
Ho fatto una pisciatina all’angolo della siepe.
Mi sono girato, e camminando ho osservato ancora il cielo dietro le case e gli alberi.
Fermo
cammino verso il cancello delle macchine
WTF
c’è un cane
(noi non abbiamo un cane, nessun nostro vicino ha un cane, non ho mai visto quel cane prima!)
è bello grosso anche.
E’ girato di spalle, impegnato a leccare qualcosa, così indietreggio senza voltarmi sperando di non farmi notare
ma fuck! sposto delle foglie delle piante di mia nonna e lui mi sente. Si gira d’istinto incuriosito a guardarmi; lo leggo nei suoi occhi che è genuinamente incuriosito – che cosa ci fa un umano di notte in giro?
Ma io mi chiedo che cosa ci faccia lui lì

Continua a seguirmi, fissandomi con due occhioni enormi e umidi, e io continuo a indietreggiare, facendogli sshh buono cane – è senza collare, per questo mi preoccupa, potrebbe essere un randagio
Lentamente raggiungo gli scalini, mentre lui si è fermato davanti al cancelletto e continua a fissarmi; raccolgo le mie cose, chiavi e cellulare, scivolo dentro il portone delle scale e chiudo
– Buonanotte cane! –

Forse è il caso che vada a letto, ho le allucinazioni
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Sembra stupido eppure quest’esperienza è proprio ciò che cercavo, un’avventura, diversa dal solito, che rompesse la routine quotidiana, qualcosa da raccontare anche se all’apparenza – solo all’apparenza – banale. Chi si sarebbe mai aspettato di trovarsi un cane sconosciuto in cortile alle due di notte? E come ci sarebbe entrato poi?
La notte rende tutto molto più intenso. Paulo Coelho ha scritto: “l’Amore è un atto di infinito coraggio”; il coraggio di uscire dagli schemi, di fare cose per cui gli altri ti guardano strano o ti sconsigliano, di uscire in piena notte dal portone delle scale a guardare il tempo turbolento e immaginarsi liberi ad urlare sopra il vento, sopra l’urlo della bufera.

Di notte il nostro cuore stanco si abbandona all’idea che non ci sia altro che amore – perché di notte è così: niente scuola, niente lavoro, solo amici, solo amore.
E di notte il nostro cervello si rende finalmente conto che tutto questo è vero, che non esiste altro al mondo, nelle nostre vite, che amore che regge in piedi tutto.

Non so bene descrivere che cosa ho provato questa notte, se non con queste parole; ci sono persone che si innamorano della notte, e di quello che rappresenta e mette a nudo, cioè l’essenza più intima dell’essere umano, la sua vera natura.

Su How I met your Mother dicono: “Niente di buono accade dopo le due di notte!” … oppure qualcosa sì?

(11 Agosto 2013)

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Bach/Respighi (arr.) – Passacaglia e Fuga in Do minore

[https://youtu.be/bXwHORPeOsg]

Questa trascrizione di Respighi della celebre Passacaglia e Fuga in Do Min. (BWV 582) per organo di J. S. Bach, mette assolutamente in risalto la brillantezza e la generosa fantasia del pensiero musicale bachiano. Rimanda a misteriosi e mistici sentimenti dell’uomo universale, come il rintocco di campane che risveglia gli assopiti, il tema ricorrente della Passacaglia assume il mantello scuro della Morte che accompagna da sempre l’essere umano per tutta la sua vita, nei momenti di felicità, come nei momenti di sconforto, che fa da sottofondo alla Storia del mondo, e che la conduce come il bordone del pedale di un eterno concerto celeste, a volte in disparte, altre volte da protagonista. Danza di fantasmi e di viventi in un continuo gioco di riflessi e ombre, dolcemente come l’amore o dolorosamente come la disperazione, contrappunto alla vita di un uomo che aspira al bene in slanci poderosi, per dissolversi e magnificarsi nel finale della terza piccarda e nella ritrovata pace eterna.