La Finzione nella letteratura in Pirandello e Unamuno

La più grande differenza tra realtà e fantasia è che la fantasia deve essere credibile
Mark Twain

La figura dell’autore in un’opera artistica e letteraria è tanto scontato quanto essenziale: ogni lavoro presuppone un autore materiale (o più di uno) e non esiste altra divisione tra l’arte e l’artista oltre finzione e realtà. Ma l’autore può comparire all’interno della sua stessa opera comprendendosi intenzionalmente nel suo capolavoro: alcuni esempi celebri sono gli autoritratti (di Rembrandt, di Michelangelo, etc.) in opere sacre e profane dai contesti assolutamente occasionali; o anche la firma stilistica (Bach usava come temi per le sue fughe il suo cognome). Qualche scrittore, giocando con gli anagrammi si crea un corrispondente immaginario, o si introduce sotto le spoglie di un personaggio (come non pensare a Dante nel suo viaggio fantastico) come “avatar”. Ma le opere d’arte possono riprodurre la realtà? Riprodurla certamente, copiarla, ma si discosteranno lentamente da questa nello sfasamento temporale che diventerà incolmabile: dal momento della creazione (nella sua precisa e delimitata epoca storica) pian piano se ne separa trasformandosi in altro da essa, conquistando l’autonomia dell’arte, perché se la realtà cambia, l’arte, della quale è una copia fissa e immutabile, continuerà ad essere eternamente la stessa imperitura espressione di un sentimento. Sempre la stessa combinazione cromatica, la stessa combinazione di suoni, gli stessi versi poetici, che (con buona pace dell’interpretazione) porteranno all’umanità un frammento del mondo interiore di chi li pensò. Nel momento in cui l’artista li fissa diventano, quindi, qualcos’altro. Non più realtà: verità (giacché la verità non è che un continuo e perfetto mutare se stessa) o invenzione, una falsità, una finzione. Il fruitore di un’opera artistica è a conoscenza di questo avviso e vi si accosterà consapevole che le persone non sanno volare, che i prati non sono rossi, e che una poltrona non può parlare. La rottura delle comuni leggi della natura e della logica indurrebbero il lettore a dubitare di quell’opera come non veritiera, irrealistica; allora la questione nasce dall’atteggiamento con cui ci si approccia ad analizzare un’opera. Come ci si comporterà quando l’opera e l’arte invade la realtà? È quello che accade con gli effetti di trompe-l’oeil di alcuni madonnari, che letteralmente ingannano i nostri occhi con effetti di realistiche (ma ingannatrici) proiezioni prospettiche. Nella letteratura è racchiuso tutto nella manifestazione dell’onnipotenza creatrice dell’autore. Gli esempi più emblematici sono l’anticommedia “Sei personaggi in cerca d’autore” di L. Pirandello e il romanzo filosofico (o nivola) “Niebla” di M. de Unamuno. Emblematici perché opere uniche, nuove e originali per il panorama culturale europeo dell’anteguerra. Questi esempi svelano l’origine della nascita nella mente dell’autore di personaggi che manifestano ansie e crisi interiori che riecheggiano il clima storico del periodo nel quale sono state composte (del 1907 la nivola¹ e del 1922 la prima rappresentazione dei Sei personaggi). Questi personaggi (parliamo di Pirandello) rifiutati dalle scene, vagano senza posa nella realtà, in cerca della loro soluzione teatrale (che sarebbe l’esibizione scenica). Eppure vivono come effimere ombre la loro precaria situazione di personaggi (si badi bene: personaggi, non attori!) tragici, con le loro passioni, il loro dramma e i loro paradossi. Affrontarli in una rappresentazione teatrale comporta l’uso necessario di attori, vestiti nei panni dei sei personaggi, a recitare una parte che «difficilmente potrà essere com’io sono realmente» (cit. Padre) e che all’interno della finzione teatrale che racchiude questa entrata, magica, inattesa per gli attori che stavano provando “Il giuoco delle parti”, sarà velatamente messa in luce e criticata la pretesa di realismo a cui aspirava il teatro naturalista e verista prima di allora. Il gioco di relazioni interne al teatro aumentano ancora e si complicano quando i personaggi chiamano alla ribalta un ulteriore personaggio, necessario allo svolgersi del dramma, realizzando così, sotto l’accondiscendente (o meravigliato) sguardo del pubblico il mistero della creazione di Madama Pace. Nella finzione teatrale è come se gli attori che stavano provando vivessero l’inspiegabile esperienza della materializzazione davanti ai loro occhi del fantastico, ovvero di quello che prima non esisteva, ma tutto questo non viene vissuto nella stessa maniera dal pubblico in sala, giacché ha accettato pagando il biglietto la finzione (il cosiddetto patto narrativo implicito), ma è allo stesso tempo conscia della situazione e critico verso ogni scena proposta: dalla volontaria sospensione del dubbio, al deus ex machina. Finzione, però, che cessa non appena si riaccendono le luci in sala. Si può allora immaginare il motivo per cui le opere di Pirandello abbiano suscitato tanto scandalo. Viene cercato lo stridore che crea il violento impatto tra finzione e realtà, per esempio, è famoso uno scambio di battute tra il Padre e il Capocomico:

«P: – Un personaggio, signore, può sempre domandare a un uomo chi è. Perché un personaggio ha veramente una vita sua, segnata da caratteri suoi, per cui è sempre «qualcuno». Mentre un uomo – non dico lei, adesso – un uomo così in genere, può non esser «nessuno».
C: – Già! Ma lei lo domanda a me, che sono il Direttore! Il Capocomico! Ha capito?
P: – […] se noi oltre l’illusione, non abbiamo altra realtà, è bene che lei diffidi della realtà sua, di questa che lei oggi respira e tocca in sé, perché – come quella di jeri – è destinata a scoprirlesi illusione domani.»

Non ci sta forse mettendo in guardia l’attore che interpreta il personaggio del ‘Capocomico’, e non sta mettendo ancora più in guardia noi? Dove finisce la realtà e dove comincia il teatro? Dove finisce la farsa e dove inizia la vita? Realtà e fantasia allora si scontrano tragicamente nella scena e tutto il teatro, gli spettatori, e tutto il mondo sono coinvolti nella finzione. A ben ragione quest’opera è un capolavoro della letteratura universale, che apre uno spiraglio al nostro telo quotidiano per farci scoprire più personaggi in maschera di quanto non crediamo. Il mondo, e le sue rappresentazioni, sono messe in dubbio e lo spettatore è costretto a reagire, a ragionare, confrontarsi con se stesso (non per caso Pirandello è stato definito scrittore ‘filosofico’). L’opera d’arte è, sotto certi aspetti, come il vetro di una finestra: l’osservatore vede se stesso e il suo mondo riflesso nel vetro, ma attraverso di questo vede quello che c’è oltre, l’aldilà, un mondo più vasto e complesso. Questo eterno dualismo tra reale e irreale, questa “opposizione irriducibile” per Todorov (La letteratura fantastica, 1977) è la “quintessenza della letteratura”. La discussione del limite tra realtà e fantasia, quindi, è stata forse una delle prime questioni implicitamente affrontate dalla poesia e dalle mitologie. Ma, ancora una volta, i limiti si possono rompere e l’invasione della fantasia nella realtà, o viceversa, è da accettare come in un sogno. L’Arte ha sempre cercato di creare artificialmente quello che ogni notte i sogni ci fanno apparire naturale. Così in “Niebla” di Unamuno assistiamo nella fine del romanzo solo dopo che il suo protagonista, Augusto Pérez, cade vittima di disavventure sentimentali e amorose, alla decisione di consultare il parere di Unamuno stesso sulla sua intenzione di suicidarsi. Quello che ad un lettore superficiale può apparire inizialmente come un giochetto letterario, si trasforma presto in un acceso dibattito filosofico ed esistenziale che trascende qualsiasi particolare autoriferimento. La questione vitale per Augusto, oltre a scoprirsi come puro ente di finzione (il primo caso nella storia della letteratura?) è la sua conseguente negazione della libertà decisionale: tutto quello che ha fatto o deciso ( o che ha creduto di fare e di decidere) gli veniva imposto da un potere superiore e sconosciuto, quasi divino, che coincideva, a volte, con la sua stessa coscienza.

«- ¿Cómo que no estoy vivo? ¿Es que he muerto? – y empezó, sin darse clara cuenta de lo que hacía, a palparse a sí mismo. […] – Pues bien: la verdad es, querido Augusto – le dije con la más dulce de mis voces -, que no puedes matarte porque no estás vivo, nì tampoco muerto, porque no existes…»

Il suo creatore-autore gli appare davanti costringendolo ad aprire gli occhi sulla sua natura di personaggio all’interno di un mondo fittizio e inventato. Certo gli interventi degli autori nella narrativa non erano nuovi, ma sono sempre stati limitati al ruolo marginale di narratore (al più onnisciente ed extradiegetico). In quest’opera originale lo scrittore, dall’alto della sua onnipotenza creatrice si include nei protagonisti, creando, però, una personaggio a sé che (come semplice emanazione dimostrativa) ovviamente non corrisponderà mai con l’autore reale che realmente l’ha pensato e fissato su carta. Qui si palesa, allora, il velo sottile che separa la realtà dalla fantasia, la differenza tra il mondo fisico e il mondo ideale, che è evanescente quanto indistruttibile (il nostro vetro). Ma torniamo ad Augusto, che si riteneva dotato di libero arbitrio, e che invece tutto (compresa la decisione di consultare Unamuno) era predisposto dal principio: la sua morte, infatti, è già scritta al finale del romanzo e l’autore non può, o non vuole, cambiarlo.

«- […] No quiere usted dejarme ser yo, salir de la niebla, vivir, vivir,vivir, verme, oírme, tocarme, sentirme, dolerme, serme. ¿Conque no lo quiere? ¿Conque he de morir ente de ficción? Pues bien, mi señor creador don Miguel, también usted se morirá, también usted, y se volverá a la nada de que salió… ¡Dios dejará de soñarle! ¡Se morirá usted, sí, se morirá, aunque no lo quiera; se morirá usted y se morirán todos los que lean mi historia, todos, todos, sin quedar uno! ¡Entes de ficción como yo; lo mismo que yo! Se morirán todos, todos, todos. Os lo digo yo, Augusto Pérez, ente ficticio como vosotros, nivolesco, lo mismo que vosotros. Porque usted, mi creador, mi don Miguel, no es usted más que otro ente nivolesco, y entes nivolescos sus lectores, lo mismo que yo, que Augusto Pérez, que su víctima…
– ¿Víctima? – exclamé.
– ¡Víctima, sí! ¡Crearme para dejarme morir! ¡Usted también se morirá! El que crea se crea y el que se crea se muere. ¡Morirá usted, don Miguel; morirá usted y morirán todos los que me piensen! ¡A morir, pues!»

Sarà l’ultima ed estrema ribellione di Augusto prima di morire, forse veramente suicida (avverando la profetica morte) o forse ucciso, come stabilito, dal suo creatore. Tragica fatalità degli Enigmi, che è la stessa governata del Destino. Questa è la condizione umana che traspare da tutta l’opera di Unamuno: uomini dispersi, isolati e confusi, che vivono una vita prestabilita da altri e che sono sorvegliati da un Dio che prima o poi smetterà di sognarli.

Fingere in latino significa “formare”, “creare”, ed è dalla suprema creazione artistica che l’artista, qualunque sia la sua arte, esprime il suo talento e la sua fantasia (attinta da fonti extra-fenomeniche, o noumeniche). La finzione, in definitiva, è un atteggiamento critico con il quale l’autore favorisce, attraverso le più diverse tecniche, un approccio alla comprensione dell’opera in maniera cosciente, rigettando ogni romanticismo e non occultando le tecniche narrative che utilizza, ma anzi mostrando le caratteristiche propriamente metaletterarie e metateatrali, al fine non solo di stupire, ma anche di far riflettere il lettore/spettatore su se stesso e sul mondo che lo circonda. Borges scrisse: «Perché ci inquieta il fatto che la mappa sia compresa nella mappa e le mille e una notte nel libro delle Mille e una notte? Perché ci inquieta che don Chisciotte sia lettore del Don Chisciotte, e Amleto, spettatore dell’Amleto? Credo di aver trovato la causa: tali inversioni suggeriscono che se i caratteri di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori, possiamo essere fittizi.» (Da Altre inquisizioni, Magie parziali del “Don Chisciotte”, 1960)

¹ Come intendeva lo stesso autore, la forma del romanzo (novela in spagnolo) si confonde con il contenuto nebbioso e incerto di Niebla (“Nebbia”), diventando di conseguenza non più novela, ma nivola.

AP

L’utilità dell’inutile

Delle considerazioni estetiche

Non è una caso che il titolo di questo articoletto sia lo stesso del tanto atteso saggio (uscito in Italia, dopo il risonante successo in Francia) di Nuccio Ordine per la Bompiani. Stavo incredibilmente pensando anch’io a qualcosa del genere, quando il professore mi anticipò decisamente. Quello che seguirà saranno solo brevi sviluppi di idee e scoperte che parallelamente ho incontrato e approfondito nelle mie pur lacunose letture.

                                      Il n’y a rien d’inutile en nature, non pas l’inutilité mesmes.

In natura non c’è niente di inutile, nemmeno l’inutilità stessa.

(Michel de Montaigne, Saggi, 1580-95)

Volendo discutere dell’inutilità, ed in particolare dell’inutilità di oggetti, pensieri e discipline, sorge l’urgenza di capire di quale inutilità si vuole parlare e come mai di inutilità si tratta. Innanzitutto: “[…] ci sono due specie di utilità, e il senso di questo vocabolo è sempre relativo” spiega per noi Téophile Gautier nella sua celebre Préface che divenne il manifesto di una certa arte pensata come per se stessa. Quello che è utile per te può non esserlo per me. È ovvio che tentare di estendere qualità utilitaristiche di un oggetto da una persona singola al generale è quantomeno una forzatura, e di conseguenza, un’imposizione autoritaria proveniente dall’alto risulterebbe una violenza alla libera decisione individuale. Il sofista Trisimaco (V sec. a.C.) ebbe occasione di dire che: “Il giusto non è che l’utile del più forte”, e non sembra che sia molto distante dalla realtà attuale. Questo giudizio utilitaristico¹ (che, quindi, vuole valutare una funzionalità, un’operatività dell’oggetto in questione) è teso all’unico scopo di etichettare ciò che può essere produttivo, e che porta alla fine un guadagno e un profitto, da quello che non lo è. A qui tende l’unico interesse di chi vuole spregiare tutto ciò che è futile, superfluo, lusso e di alcuna utilità materiale². Dove e quando il tempo si misura in denaro le attività che più ne fanno le spese sono le arti, le lettere, le scienze speculative e filosofiche. Eppure anche nel mondo culturale si rischia sempre di lasciar insinuare una mentalità lucrosa che strizza più volentieri l’occhiolino al mercato commerciale che non ai nobili e più elevati ideali di Bellezza e Verità.

Miguel de Unamuno scrisse: “L’uso danneggia e persino distrugge la bellezza. La più nobile funzione di un oggetto è essere contemplato” (Niebla, 1907). L’importanza che dobbiamo conferire alla bellezza di per sé deve trascendere ogni sua utilità per donarci naturalmente e gratuitamene piacere. Il bello è lo splendore del Vero, insegna la scuola platonica, e diventa simbolo del bene morale per Kant. Ogni esperienza che possiamo avere del bello è autosufficiente, perché il gusto del bello non necessita alcuna approvazione, né è imposta da alcun interesse. L’Arte non può essere utilitaria perché il suo valore dipende dalla sua autonomia, dalla sua “finalità senza fini” (Kritik der Urteilskraft, 1790), precisamente dalla sua inutilità. “L’Arte è completamente inutile” (O. Wilde, Preface dal The Picture of Dorian Gray, 1890); “Veramente bello è soltanto ciò che non può servire a nulla” (T. Gautier, Préface dal Mademoiselle de Maupin, 1834); sono solo alcune delle più provocatorie affermazioni che artisti e poeti del secolo dei simbolisti hanno trovato necessario spendere per difendere l’idea di Arte come inutile necessità. Se fosse di una qualche utilità perderebbe immediatamente ogni suo slancio metafisico, perché costretta a trattare di argomenti realistici, insegnare qualcosa a tutti i costi, rimanere incatenata a leggi che non fanno che sopprimere e deformare il suo slancio vitale e la sua creatività. Se l’Arte fosse mera imitazione della realtà, sarebbe del tutto superflua. “Senza la musica la vita sarebbe un errore” (F. W. Nietzsche, Götzen-Dämmerung, 1888). L’Arte, come la letteratura, offre quel qualcosa in più che manca alla natura, che serve ad abbellire, che esagera, che mente, che finge, che cela e trasforma. L’artista fa uso della sua creatività per migliorare il mondo intorno a lui e renderlo più bello e migliore. Gli aggiunge quel tocco, quella magia e quell’eleganza che rende estetico lui e tutta la realtà che lo circonda. L’Arte è un lusso che si deve concedere l’uomo; uno dei rituali più importanti e inutili.

La parola stessa ‘Lusso‘ (dal lat. Luxus) significa ‘esuberanza’, ‘abbondanza’, ‘eccesso’; non meraviglia perciò che G. Bataille in un suo mai terminato saggio distingua due tipi di economie: un’economia capitalistica, dove lo scopo è accumulare e accrescere ricchezze, e un’economia di festa, dove l’eccedente produttivo viene subito sprecato senza alcun aumento del potenziale di produzione. “Nel primo caso, il valore umano è funzione della produttività; nel secondo, si lega agli esiti più belli dell’arte, della poesia, al pieno rigoglio della vita umana” (Il limite dell’utile, 1939-1945). Perché solo dove viene valorizzato il superfluo fioriscono umanità e civiltà, mentre dove vige la logica del mercato so inaridisce l’Arte e l’uomo? Lusso non è sinonimo di dissipazione, Arte non vuol dire spreco, poetare non è perder tempo, sognare non è superfluo e investire sulla cultura non significa buttare soldi. Il fatto che l’uomo, sin dalle sue origini più antiche, pensi e crei non ha ancora convinto molto sull’importanza che ha sulle nostre vite un sapere libero e disinteressato. Non si studia solo per imparare dei saperi, ma per imparare a viverli. Il fine del sapere non è la Verità assoluta, ma il percorso e il viaggio che ci può avvicinare ad essa. L’uomo libero che spinge ogni volta più in là i confini della sua conoscenza è una benedizione per il mondo e un sollievo per l’umanità. Contrariamente a quanto si potrebbe credere: la filosofia non serve a cercare risposte, ma a porre nuove domande. “Non v’è esercizio intellettuale che non sia finalmente inutile” (J. L. Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte, 1939). Il conoscere non pone limiti, perché il sapere è infinito, e arricchisce chiunque vi si accosti in completa e libera gratuità. La conoscenza è l’unica ricchezza che si può donare senza impoverirsi. Di questa fonte spirituale noi non possiamo negare all’uomo il suo nutrimento: un luogo nel quale rinfrancarsi, vivificare e dal quale attingere le proprie energie interiori e nutrirsi perché “non di solo pane vive l’uomo” (Luca 4, 4)…

Quelle discipline e le scienze che si pongono come unico fine la pura conoscenza, o il raggiungimento di un modello ideale estetico, devono spingere la curiosità e l’interesse del singolo a scoprire per il piacere e la gioia di imparare, di crescere e conoscersi sempre meglio. La presunzione di crederci sapienti ci nega al principio ogni speranza di apprendere. Il nostro ‘so di non sapere’ sarà, allora, la più nobile resistenza alla trivialità del mondo. Ogni uomo deve dimostrare un rispetto e un atteggiamento che renda merito alla sua essenza, perché il suo essere e la sua cultura l’hanno innalzato e nobilitato dal suo bruto stato di animalità, pertanto, scoprendo la gioia nella bellezza, con mezzi assai inutili: “Elevandosi al di sopra dei bisogni naturali primitivi, egli si fece umano” (Kakuro Okakura, Lo Zen e la cerimonia del , 1906). Se con una panoramica si osservasse il mondo e l’universo che fluttua e ruota intorno a noi, e tentassimo di capire il perché di tutto questo, difficilmente potremmo fornire giustificazioni sull’utilità di ogni cosa: primo, perché “la natura non fa nulla di inutile” (Aristotele, Politica, IV a.C.), secondo, perché – come continua la citazione dell’epigrafe di Montaigne – “Niente è inutile in natura, nemmeno l’inutilità stessa; niente si è intromesso in questo universo che non abbia posto adatto” (M. de Montaigne, cit.). Alla vita rimane il mistero e il delizioso compito di svelarlo nei modi più vari possibili, sempre consci che “l’arte è ciò che meglio consola del vivere” (T. Gautier, cit.), e che valga ancora la pena ricordarsi che nella vita “il massimamente utile è l’inutile” (D. Diderot).

AP

¹ “Per conoscere ciò che è utile bisogna sapere ciò che è inutile” (Zhuang-zi, IV sec. a.C.)

²  M. Heidegger, in un passo di Essere e tempo (1927) chiama indifferentemente ‘strumenti’ gli oggetti di cui si serve l’uomo nella  sua vita; dal momento in cui non gli servono più, fino a quando non li riprenderà in mano, trascorre un certo lasso di tempo nel quale appunto quegli oggetti gli risultano relativamente inutili.