L’utilità dell’inutile

Delle considerazioni estetiche

Non è una caso che il titolo di questo articoletto sia lo stesso del tanto atteso saggio (uscito in Italia, dopo il risonante successo in Francia) di Nuccio Ordine per la Bompiani. Stavo incredibilmente pensando anch’io a qualcosa del genere, quando il professore mi anticipò decisamente. Quello che seguirà saranno solo brevi sviluppi di idee e scoperte che parallelamente ho incontrato e approfondito nelle mie pur lacunose letture.

                                      Il n’y a rien d’inutile en nature, non pas l’inutilité mesmes.

In natura non c’è niente di inutile, nemmeno l’inutilità stessa.

(Michel de Montaigne, Saggi, 1580-95)

Volendo discutere dell’inutilità, ed in particolare dell’inutilità di oggetti, pensieri e discipline, sorge l’urgenza di capire di quale inutilità si vuole parlare e come mai di inutilità si tratta. Innanzitutto: “[…] ci sono due specie di utilità, e il senso di questo vocabolo è sempre relativo” spiega per noi Téophile Gautier nella sua celebre Préface che divenne il manifesto di una certa arte pensata come per se stessa. Quello che è utile per te può non esserlo per me. È ovvio che tentare di estendere qualità utilitaristiche di un oggetto da una persona singola al generale è quantomeno una forzatura, e di conseguenza, un’imposizione autoritaria proveniente dall’alto risulterebbe una violenza alla libera decisione individuale. Il sofista Trisimaco (V sec. a.C.) ebbe occasione di dire che: “Il giusto non è che l’utile del più forte”, e non sembra che sia molto distante dalla realtà attuale. Questo giudizio utilitaristico¹ (che, quindi, vuole valutare una funzionalità, un’operatività dell’oggetto in questione) è teso all’unico scopo di etichettare ciò che può essere produttivo, e che porta alla fine un guadagno e un profitto, da quello che non lo è. A qui tende l’unico interesse di chi vuole spregiare tutto ciò che è futile, superfluo, lusso e di alcuna utilità materiale². Dove e quando il tempo si misura in denaro le attività che più ne fanno le spese sono le arti, le lettere, le scienze speculative e filosofiche. Eppure anche nel mondo culturale si rischia sempre di lasciar insinuare una mentalità lucrosa che strizza più volentieri l’occhiolino al mercato commerciale che non ai nobili e più elevati ideali di Bellezza e Verità.

Miguel de Unamuno scrisse: “L’uso danneggia e persino distrugge la bellezza. La più nobile funzione di un oggetto è essere contemplato” (Niebla, 1907). L’importanza che dobbiamo conferire alla bellezza di per sé deve trascendere ogni sua utilità per donarci naturalmente e gratuitamene piacere. Il bello è lo splendore del Vero, insegna la scuola platonica, e diventa simbolo del bene morale per Kant. Ogni esperienza che possiamo avere del bello è autosufficiente, perché il gusto del bello non necessita alcuna approvazione, né è imposta da alcun interesse. L’Arte non può essere utilitaria perché il suo valore dipende dalla sua autonomia, dalla sua “finalità senza fini” (Kritik der Urteilskraft, 1790), precisamente dalla sua inutilità. “L’Arte è completamente inutile” (O. Wilde, Preface dal The Picture of Dorian Gray, 1890); “Veramente bello è soltanto ciò che non può servire a nulla” (T. Gautier, Préface dal Mademoiselle de Maupin, 1834); sono solo alcune delle più provocatorie affermazioni che artisti e poeti del secolo dei simbolisti hanno trovato necessario spendere per difendere l’idea di Arte come inutile necessità. Se fosse di una qualche utilità perderebbe immediatamente ogni suo slancio metafisico, perché costretta a trattare di argomenti realistici, insegnare qualcosa a tutti i costi, rimanere incatenata a leggi che non fanno che sopprimere e deformare il suo slancio vitale e la sua creatività. Se l’Arte fosse mera imitazione della realtà, sarebbe del tutto superflua. “Senza la musica la vita sarebbe un errore” (F. W. Nietzsche, Götzen-Dämmerung, 1888). L’Arte, come la letteratura, offre quel qualcosa in più che manca alla natura, che serve ad abbellire, che esagera, che mente, che finge, che cela e trasforma. L’artista fa uso della sua creatività per migliorare il mondo intorno a lui e renderlo più bello e migliore. Gli aggiunge quel tocco, quella magia e quell’eleganza che rende estetico lui e tutta la realtà che lo circonda. L’Arte è un lusso che si deve concedere l’uomo; uno dei rituali più importanti e inutili.

La parola stessa ‘Lusso‘ (dal lat. Luxus) significa ‘esuberanza’, ‘abbondanza’, ‘eccesso’; non meraviglia perciò che G. Bataille in un suo mai terminato saggio distingua due tipi di economie: un’economia capitalistica, dove lo scopo è accumulare e accrescere ricchezze, e un’economia di festa, dove l’eccedente produttivo viene subito sprecato senza alcun aumento del potenziale di produzione. “Nel primo caso, il valore umano è funzione della produttività; nel secondo, si lega agli esiti più belli dell’arte, della poesia, al pieno rigoglio della vita umana” (Il limite dell’utile, 1939-1945). Perché solo dove viene valorizzato il superfluo fioriscono umanità e civiltà, mentre dove vige la logica del mercato so inaridisce l’Arte e l’uomo? Lusso non è sinonimo di dissipazione, Arte non vuol dire spreco, poetare non è perder tempo, sognare non è superfluo e investire sulla cultura non significa buttare soldi. Il fatto che l’uomo, sin dalle sue origini più antiche, pensi e crei non ha ancora convinto molto sull’importanza che ha sulle nostre vite un sapere libero e disinteressato. Non si studia solo per imparare dei saperi, ma per imparare a viverli. Il fine del sapere non è la Verità assoluta, ma il percorso e il viaggio che ci può avvicinare ad essa. L’uomo libero che spinge ogni volta più in là i confini della sua conoscenza è una benedizione per il mondo e un sollievo per l’umanità. Contrariamente a quanto si potrebbe credere: la filosofia non serve a cercare risposte, ma a porre nuove domande. “Non v’è esercizio intellettuale che non sia finalmente inutile” (J. L. Borges, Pierre Menard, autore del Chisciotte, 1939). Il conoscere non pone limiti, perché il sapere è infinito, e arricchisce chiunque vi si accosti in completa e libera gratuità. La conoscenza è l’unica ricchezza che si può donare senza impoverirsi. Di questa fonte spirituale noi non possiamo negare all’uomo il suo nutrimento: un luogo nel quale rinfrancarsi, vivificare e dal quale attingere le proprie energie interiori e nutrirsi perché “non di solo pane vive l’uomo” (Luca 4, 4)…

Quelle discipline e le scienze che si pongono come unico fine la pura conoscenza, o il raggiungimento di un modello ideale estetico, devono spingere la curiosità e l’interesse del singolo a scoprire per il piacere e la gioia di imparare, di crescere e conoscersi sempre meglio. La presunzione di crederci sapienti ci nega al principio ogni speranza di apprendere. Il nostro ‘so di non sapere’ sarà, allora, la più nobile resistenza alla trivialità del mondo. Ogni uomo deve dimostrare un rispetto e un atteggiamento che renda merito alla sua essenza, perché il suo essere e la sua cultura l’hanno innalzato e nobilitato dal suo bruto stato di animalità, pertanto, scoprendo la gioia nella bellezza, con mezzi assai inutili: “Elevandosi al di sopra dei bisogni naturali primitivi, egli si fece umano” (Kakuro Okakura, Lo Zen e la cerimonia del , 1906). Se con una panoramica si osservasse il mondo e l’universo che fluttua e ruota intorno a noi, e tentassimo di capire il perché di tutto questo, difficilmente potremmo fornire giustificazioni sull’utilità di ogni cosa: primo, perché “la natura non fa nulla di inutile” (Aristotele, Politica, IV a.C.), secondo, perché – come continua la citazione dell’epigrafe di Montaigne – “Niente è inutile in natura, nemmeno l’inutilità stessa; niente si è intromesso in questo universo che non abbia posto adatto” (M. de Montaigne, cit.). Alla vita rimane il mistero e il delizioso compito di svelarlo nei modi più vari possibili, sempre consci che “l’arte è ciò che meglio consola del vivere” (T. Gautier, cit.), e che valga ancora la pena ricordarsi che nella vita “il massimamente utile è l’inutile” (D. Diderot).

AP

¹ “Per conoscere ciò che è utile bisogna sapere ciò che è inutile” (Zhuang-zi, IV sec. a.C.)

²  M. Heidegger, in un passo di Essere e tempo (1927) chiama indifferentemente ‘strumenti’ gli oggetti di cui si serve l’uomo nella  sua vita; dal momento in cui non gli servono più, fino a quando non li riprenderà in mano, trascorre un certo lasso di tempo nel quale appunto quegli oggetti gli risultano relativamente inutili.